Critical Texts

Alberto Corvi - Un inconsumabile amore per le cose

Marco Festa (1993), giovane pittore naturalista, è sempre stato un bambino curioso, versato nel disegno sin dalla prima infanzia. Un ragazzino affascinato dal mondo con due occhi grandi, stupiti, che a scuola dalle suore, a tre anni appena, quando tutti scarabocchiano a stento fantocci stilizzati, fa disegni stravaganti, figurine in movimento che siedono, che si proiettano in avanti e indietro. Marco aveva già intuito che il mondo non è fatto di corpi inerti ma di oggetti pieni di vita, anche quando la vita si coglie appena. Nascosta in una perla di rugiada, nel petalo diafano di un fiore, nelle screziature iridescenti dei minerali, la vita pulsa silenziosa.

 

Il piccolo Festa è un adolescente che ha sete di meraviglia, appassionato di scienze naturali e paleontologia, smanioso di districare le trame impercettibili delle cose, quelle cose che non comprende e che lo suggestionano profondamente. Come quella volta che imbattutosi in una crisalide attese paziente per giorni che schiudesse davanti ai suoi occhi, rivelandogli i misteri della metamorfosi.

Marco ha frequentato il liceo artistico di Crema dove si è impratichito nel disegno e nella copia dal vero, assimilando i primi rudimenti di anatomia, iscrivendosi in seguito ad un’accademia privata di pittura a Firenze, dove l’imitazione del naturale, la mimesis, era un esercizio quotidiano, rigoroso, che richiedeva un’inflessibile disciplina. È qui che il disegno assume per lui un ruolo fondamentale.

Il giovane matura così molto presto uno stile e una tecnica con cui si distingue soprattutto nel nord Italia dove viene notato da Gianluca Corona (1969), quotato esponente della giovane figurazione italiana, che si interessa al ragazzo e lo prende a bottega. Corona è un pittore alla vecchia maniera, affezionato alle tecniche rinascimentali e a un supporto antico, la tavola, che Festa imparerà a conoscere e a utilizzare. Marco inizia quindi il suo apprendistato svolgendo tutte quelle faticose attività da garzone, come la macinazione dei colori, l’imprimitura delle tavole, istruendosi sulle preparazioni, sulle colle e sui leganti. Trascorreranno così tre anni, un lungo periodo fatto di ascolto, di osservazione partecipata e di piccole collaborazioni.

Contestualmente Festa, che ha sistemato il suo studio a Rivolta d’Adda, decide di perfezionare tecnica e formazione nelle aule dell’Accademia di Brera a Milano, esponendo in quegli anni alle prime mostre. Ricordiamo fra tutte la sua personale organizzata alla Libreria Bocca in Galleria Vittorio Emanuele II a Milano (2018).

È in questi anni che il pittore prende a dipingere fiori, frutti, conchiglie, rametti di corallo e quarzi. Ma anche reperti disparati in larga parte recuperati nel corso dei suoi viaggi, vagliando giacimenti argillosi, minerali e fossili, da cui ha riportato anche campioni di terre rosse, brune e ocra, cavate dalla terra per farne pigmenti.

Sono soggetti, questi, che il pittore non abbandonerà più, alimentando quel suo inconsumabile amore per le cose, quelle cose che si rigira tra le mani, osserva, impara a conoscere. Quel mondo che le persone distratte notano appena, agli occhi di Festa è un’inesauribile fonte di ispirazione che gli parla con voce chiarissima. Come mi dice il pittore, sono infatti gli stessi oggetti a cercare il suo sguardo, a chiedere di essere ritratti, si lasciano scegliere insomma. Certo però è necessario che il pittore si ponga in ascolto, lasciando che le cose esprimano appieno il loro carattere. E questo è possibile grazie alla confidenza straordinaria che l’artista ha con questo mondo, che gli consente tra le altre cose di cogliere precise corrispondenze tra gli oggetti che ritrae.

Per quanto riguarda invece la maniera con cui Festa ci restituisce i soggetti, bisogna dire che questa si è affinata nel corso degli anni. Beninteso che la loro descrizione è sempre stata estremamente puntuale, così come l’esecuzione controllata e la tecnica ineccepibile, il primo periodo dell’artista, che coincide con il suo esordio, è caratterizzato in pittura da fondi oscurissimi, caliginosi, di un nero intenso oppure chiari, una soluzione che il pittore ha abbandonato quasi subito. Mentre i soggetti venivano disposti sistematicamente su un lenzuolo bianco che nascondeva il piano di appoggio.

In seguito i dipinti di Festa hanno acquistato però un nuovo carattere. I fondi si sono fatti più cangianti, di una tonalità di grigio indefinibile che vira certe volte sul marrone. Le tovaglie bianche hanno lasciato il posto alla nuda pietra, venata, scabra, sbeccata, e la luce è diventata più densa, meno fredda del primo periodo. Sembra in effetti che da un certo punto in avanti il pittore prenda a dipingere le cose sotto quella luce di autunno che gli piace tanto.

Ad ogni modo oggi la sua è una pittura intensa, carica, che rivisita evidentemente l’opera dei naturalisti lombardi come Vincenzo Campi, Fede Galizia, Caravaggio, alla quale il pittore coniuga la tradizione tecnica dei maestri olandesi, fiamminghi e spagnoli dei secoli XVI e XVII, come Jan Brueghel il Vecchio, Juan Sánchez Cotán e soprattutto Adriaen Coorte.

Tuttavia non bisogna per questo pensare a Marco Festa semplicemente come a un pittore di nature morte, questa sarebbe un’assurda semplificazione. Il suo lavoro non si esaurisce infatti nella meccanica riproduzione di un soggetto, nella sterile imitazione del dato naturale, è al contrario il riuscito tentativo di restituire un’immagine ancora più vera delle cose, intima per così dire. Ecco perché all’espressione “natura morta” è preferibile nel suo caso utilizzare l’inglese “still life”, vita immobile.

In effetti se osserviamo alcuni dei quadri più belli di Marco, come ad esempio Limone (2021), Noci trentine (2018) o ancora uno dei miei preferiti, Dicentra Spectabilis (2021), ci accorgiamo che malgrado gli oggetti figurino come sospesi in un’atmosfera metafisica, calati in un silenzio sordo, disposti sul bordo di un parapetto che affaccia su un fondale tenebroso rischiarato da una luce misteriosa, è possibile cogliere un timido palpitare. Sembra quasi di poter avvertire dondolare il gambo flessuoso di un fiore, percepire il ronzio di un coleottero posatosi accanto a un frutto, o ancora osservare l’acqua limpida nei bicchieri ora immobile ma pronta a incresparsi al primo tumulto. E che dire poi della luce, quella luce indiretta che colpisce gli oggetti, li avvolge, li consegna alle ombre e subito li cava fuori. Quella luce tanto fondamentale nei dipinti del pittore, che ispira il suo pennello, che sbozza le figure, le modella, le tornisce.

Insomma, quell’equilibrio rigoroso e quella quiete imperturbabile nei quadri di Marco Festa sono estremamente precari. Le sue tavole catturano infatti appena un momento, trascorso il quale la vita torna a scorrere. Le sue sono dunque immagini rubate alla frenesia del mondo che ci consegnano la vera bellezza delle cose e svelano il lato più sensibile della personalità dell’artista.

 

Cristina Muccioli

Infinita gradevolezza, atmosfera eletta e umile al contempo, riposata, appartata e armoniosa ma non immobile, nelle sue nature morte. Impaginati pittorici calibrati con la medesima cura con la quale si metterebbe in posa una persona per ritrarla. Campiture nette, pulite, cromaticamente soppesate, spazi fisici sospesi ma reali nei quali si accampano le immagini, che guadagnano tridimensionalità senza l’impiego della prospettiva.
Per creare profondità, un bicchiere sfaccettato sporge sul bordo di un tavolo, in equilibrio precario. Per Marco Festa, gli oggetti più quotidiani come fiori e frutti, e quelli meno frequentati come concrezioni calcaree, rami di corallo e ammoniti, diventano assorta, meravigliata e delicata invenzione.

Karl Marx ha avuto un cruccio durato tutta la vita, qualcosa che inceppava il meccanismo perfettamente oliato del materialismo storico secondo il quale l’uomo e tutto il suo mondo concreto sono esito determinato di mutevoli condizioni storiche.
Come è possibile, allora, si chiedeva il filosofo della rivoluzione, che ci piaccia Bach? Dato un mezzo di produzione, coerente con la conoscenza, i materiali e le conoscenze disponibili di un’epoca, si avrà un determinato oggetto, o prodotto, oltre a una fruizione coerente. Se trovo un aratro semplice, per fare un esempio, posso fare riferimento all’agricoltura antecedente l’XI secolo. Se trovo un vomere pesante, invece, evinco che risale già all’alto Medioevo. Bene, per la cultura, per l’arte, non funziona così. Johan Sebastian Bach appartiene al XVII secolo, e Marx al XIX, ma lo ascolta ancora, come facciamo – in maniera più elitaria purtoppo – ancora oggi.

Così accade per l’arte in generale. Disponiamo di telecamere e obiettivi fotografici sofisticatissimi, in odio ai fotografi tradizionali ma comunque in grado di restituire immagini dettagliate, nitide, esatte del reale, eppure la pittura iperrealista sopravvive, emoziona, appassiona. Soprattutto chi vi si dedica come a un mestiere. A una professione. Di più, a una missione. Alla lettera, la professione è ciò che dice di te, è ciò che dici di fare. Qui si tratta di essere, non di dire, né di fare: di essere.

Corrispondere a una prassi – quella pittorica figurativa realista – richiede una dedizione, una fatica, un tempo che possono essere concessi solo se inverano una vocazione, un desiderio strutturale. Per Marco Festa questa vocazione coincide con il sentirsi natura, e non con il rappresentarla. Perché la natura è naturans, è generativa, crea. Festa ri-crea. Non c’è altro movente per questo delitto, di sacrificare la propria giovinezza per dipingere una susina, un bicchiere d’acqua con un fiore, una perla di fiume nella bocca spalancata di una piccola conchiglia bivalva. Una tovaglia troppo grande per il cassetto in cui è stata ripiegata – lo si indovina dalle pieghe, le sue rughe – . Michele Agnolo Caravaggio dipingeva così la sua mela bacata, ma lui oltre all’accidente di essere un prodigio, non aveva a disposizione un apparecchio fotografico ad alta definizione, né poteva fare un’installazione. Festa potrebbe.

Solo che la susina non nascerebbe dall’albero delle sue stesse mani, non sarebbe stata seme nel suo sguardo, innamorato. Deve esserlo. Innamorato pazzo della natura, delle sue forme, delle analogie morfologiche tra sfere terrestri, anche minuscole e porporine, e celesti, tra un agrume e un cefalopode, tra un bicchiere e un golfo, tra uno sfondo e il chiarore del crepuscolo, tra un gasteropode e la solennità di un monumento alla memoria (naturale).

La natura ricorda. Lascia detriti, lascia resti e non lo sa. L’uomo sì, ma non se ne cura. L’artista sì, e se ne innamora. Li fa rinascere tra le dita, è specialista in miracoli. Quelli per i quali anticamente ritrarre il volto di una persona equivaleva a salvarla dal mostro dell’oblio, della morte vorace di corpo, di materia. L’artista era un dio in Terra, che garantiva immortalità, creazione dopo la creazione.

Poi, la fotografia. E i tanti, illustrissimi, che hanno parlato e seguitano a proclamare la morte dell’arte, la perdita dell’aura. Invece non soltanto la fotografia (certa fotografia, ovvio) è un detonatore di aura, parlando – per citare il solito ma inaggirabile Roland Barthes – la lettera stessa del tempo, ma anche la pittura figurativa, con tutta la sua insistita, doviziosa, sudata e anacronistica, improbabile e stupefacente mimesis. Non suona meglio di ‘imitazione’? certamente sì. Mimesis è greco antico, da cui mimetico, imitare, e quindi ‘fingere’, che però in latino significava ben di più e ben altro rispetto al significato spregiativo che ha oggi. Alludeva all’educare un talento, come la voce, o la capacità oratoria, per diventare simili a un usignolo nel canto, al più persuasivo degli avvocati nelle orazioni, che hanno onorato – è bene ricordarlo – grazie al logos, le cause giuste e i giusti.

Festa imita, lo si dica. Imita la natura, nella quale anche noi siamo inclusi con uno scarto, annidato nello sguardo. La natura non contempla se stessa, non si vede, non si apprezza, non si teme. Noi, sì. Fa parte della nostra cultura, e finisce per chiamarsi cultura, perché si avvale di artificio, tecniche e strumenti, pratica di mille pratiche che ci vengono trasmesse da Maestri viventi (in questo caso da Gianluca Corona, tra i più autorevoli nel panorama figurale italiano ) e non. Festa apprende molto dagli antichi, a partire dal supporto. Sceglie di dipingere su tavola. Peggio (nel senso della difficoltà), a olio su tavola.

Per ogni iperrealista il disegno è tutto, ed è ben più che elemento unificante tra scultura architettura e pittura. Ѐ in questa fase che il talento diventa stile, ossatura, firma, mano. Festa ama la pittura almeno quanto il disegno. Guardate da vicino, le superfici dei quadri svelano la carezza della setola del pennello, soprattutto negli sfondi che si fanno morbidamente opachi, nei riflessi cromatici vividi e scattanti attraverso le superfici vitree, dove l’artista inventa le ombre colorate, nell’incavo dei petali di un fiore, nelle campiture piane e ben perimetrale, scenograficamente gestite con puntiglio.
Lì il colore a olio si addensa e si intorbida delicatamente, si concede di essere materia, imperfezione trattenuta. Perché non si dica che un suo soggetto sembra vero, ma che un oggetto è diventato soggetto. Pittorico.

Cristina Muccioli, Milano, 2018